L’autorità della predicazione

Continua la rubrica “Predicare” in cui il pastore Bruno Rostagno ci conduce per i meandri dell’omiletica, della predicazione cristiana, concedendoci in esclusiva di ripubblicare (ampliati ed aggiornati) i capitoli del suo volume “La fede nasce dall’ascolto: guida per la predicazione”, Claudiana, 1984. Questo è il capitolo 2.2

Paolo, nella Lettera ai Romani, definisce così il suo programma: «Abbiamo ricevuto grazia e apostolato perché si ottenga l’ubbidienza della fede fra tutti gli stranieri» (Rom. 1,5). L’ubbidienza di cui parla Paolo non ha nulla a che vedere con la sottomissione a una cultura ritenuta superiore. Indica piuttosto la risposta della fede al Signore che si manifesta nella predicazione dell’apostolo.
La predicazione ha autorità quando chi ascolta si sente diretto verso quel centro che è l’azione di Dio, e da questo centro vede illuminata tutta la realtà. Quando questo accade, il discorso diventa immediatamente attuale e impegnativo.

2.2.1. Attualità
Essere attuali non significa aspettare il fatto del sabato sera o della domenica mattina, per improvvisare una riflessione. Normalmente un discorso attuale richiede una riflessione approfondita. Non basta menzionare il fatto del giorno; bisogna collocarlo nella prospettiva dell’opera di Dio, che è la realtà più attuale di tutte.
Essere attuali non significa pretendere di dare attualità a un testo che, di per sé, ne sarebbe sprovvisto. La causa profonda del sermone noioso è quasi sempre che il predicatore, pur invitando gli altri ad ascoltare il testo, è intimamente convinto che il testo sia superato, e allora si propone di “salvarlo”, innestandovi a forza delle considerazioni che lui ritiene attuali. Così non nasce nessuna predicazione. La predicazione nasce quando la verità della parola biblica ci ha afferrati e ci spinge a comunicarla nei termini della vita di oggi.

Sarebbe tuttavia errato affermare che il testo ci informa sull’attualità. L’informazione ci accompagna ogni giorno, con le sue notizie positive e, più spesso putroppo, negative. Da ciò che accade riceviamo impulsi e idee. La conseguenza è che leggiamo il testo biblico con una sensibilità acuita dai fatti e dai problemi che viviamo e che la comunità vive con noi. L’importante è che il messaggio non sia subordinato all’informazione, che il testo biblico non sia usato come illustrazione del discorso che si ritiene di dover fare su un fatto attuale. Parliamo del mondo di oggi, parliamo di noi, tocchiamo esperienze generali e esperienze individuali, ma a condurre il discorso è il testo biblico.
Ciò può avvenire in diversi modi. Gli esempi negativi che troviamo nella Bibbia contengono un’attualizzazione più a portata di mano. Non è difficile trovare successori attuali dei politici che, secondo Ezechiele 34, si ingrassano ai danni di coloro di cui dovrebbero fare il bene. La parabola di Matteo 18 può far pensare a molti comportamenti che ricalcano in qualche modo il comportamento del servo spietato. Più difficile è trovare analogie con gli esempi positivi. Esiste un corrispondente attuale di Mosè davanti al pruno ardente o di Paolo chiamato dal Signore sulla via di Damasco? Eppure questi esempi parlano oggi come ieri, anche al di fuori dell’ambito religioso. Perché? Perché mettono in evidenza la trasformazione provocata dall’intervento di Dio. Non siamo Mosè, non siamo Paolo, ma quella trasformazione interessa in alto grado anche la nostra vita.
La differenza è che, mentre i cattivi pastori sono sempre gli stessi, dall’antichità a oggi, tra Mosè e noi, tra Paolo e noi, c’è un notevole salto. Ma non bisogna aver paura di quel salto. Non siamo costretti a scegliere sempre i testi che contengono esempi negativi, oppure i testi che contengono indicazioni morali. Altrimenti dovremmo escludere anche i testi dove il salto è più considerevole, perché parlano della persona e dell’opera di Cristo. Al contrario, sono proprio questi i testi che devono avere la precedenza, perché aiutano la comunità a ripartire dal proprio fondamento, e hanno una forza tale da far nascere la fede anche là dove non c’è. La loro attualità non si esprime nella domanda: quale azione devo compiere? Ma nella domanda: qual è l’ispirazione centrale della mia vita?
Formalmente, come si deve esprimere il rapporto tra la spiegazione del testo e l’attualità? Da evitare è una disposizione del sermone in due parti: A. Spiegazione del testo; B. Attualizzazione. Le parti del sermone devono essere desunte dal testo e ogni parte dev’essere esposta in termini attuali. Riferimenti storici e spiegazione delle parole devono essere ridotti al minimo necessario per la comprensione. Altrimenti il discorso si appesantisce e risulta poco interessante. Cosa ancora più grave: chi ascolta è indotto a pensare che il testo sia soltanto un documento del passato.

2.2.1. Evangelo e legge
Nella predicazione si scivola facilmente nella legge senza evangelo. Accade quando la critica predomina sull’annuncio positivo, quando sulle spalle della comunità viene messa una mole di compiti, uno più impegnativo dell’altro, quando la comunità è lasciata sola di fronte a esigenze astratte, mentre le viene taciuto quell’annuncio del Cristo presente, che pure costituisce la prima ragion d’essere della predicazione.
Già nell’Antico Testamento la liberazione precede il comandamento, il Mar Rosso precede il Sinai. Nel Nuovo Testamento la buona notizia di Dio che accoglie il peccatore precede e fonda le esigenze della vita cristiana.
L’azione di Dio non è mai identica a ciò che accade sotto i nostri occhi, non corrisponde ai fatti constatabili esteriormente; ogni fatto della storia umana resta contraddittorio, profondamente determinato dal peccato. L’intervento di Dio che libera e salva non va cercato altrove che nella croce e nella risurrezione di Gesù Cristo. La predicazione non deve stancarsi di annunciare anche per il nostro tempo la portata decisiva di questo fatto, che è il centro dell’evangelo e va oltre il nostro tempo: è già nuova creazione, è già salvezza, di cui attendiamo con speranza la manifestazione.
Partendo da questo annuncio, la predicazione può parlare concretamente dell’impegno degli umani e indicare alla chiesa dei compiti precisi. Non si tratta di un appello ottimistico alle forze dell’uomo. Ciò che ha inizio con visioni ottimistiche finisce inevitabilmente nel legalismo schiacciante.
L’esortazione (in greco paraklesis) si fonda sulla vocazione (in greco klesis). «Vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta»: così l’evangelo si riflette nel comportamento (Efes. 4,1). Poiché la grazia del Signore non è vana, l’esortazione non è generica, ma incide nel concreto, come possiamo vedere dalle parti parenetiche (di esortazione) delle lettere apostoliche. Ma qui dobbiamo stare particolarmente attenti a come presentiamo quelle esortazioni: non dando loro un valore astratto, lontano dalla nostra realtà, bensì prendendole a guida per le indicazioni attuali che la predicazione deve dare. «Ognuno dica la verità al suo prossimo» (Efes. 4,25) ha un’applicazione che rinnova profondamente il rapporto con gli altri e che può essere illustrata da numerosi esempi, ma non può valere se si tratta di rispondere al persecutore che vuole sapere dove si trova la persona che vuole trascinare nella sala di tortura. Lo stesso vale per i comandamenti dell’Antico Testamento: non possono essere fatti pesare come se avessero un valore autonomo, ma devono essere compresi partendo dall’azione di Dio, a cui sono intimamente collegati.
Bisogna quindi essere attenti al pericolo del moralismo. Oggi si viene accusati di moralismo se si critica un politico disonesto; ma in questo e altri casi è bene al contrario fare valere un giudizio morale. Vi è moralismo quando si pretende di inquadrare i comportamenti in regole fisse e astratte. È moralistico criticare i giovani perché ballano o vanno a un concerto. È morale criticarli quando in discoteca si ubriacano e poi escono e si mettono alla guida di una macchina.
È giusto vedere in un racconto biblico un valore esemplare, ma si cade nel moralismo se si insiste unilateralmente sul dovere di imitare quegli esempi. Si sorvola sull’azione di Dio e ci si dilunga nell’esposizione delle azioni che dovremmo compiere. Bisogna invece prendersi il tempo per far comprendere il senso dell’azione di Dio nei nostri confronti; quello che possiamo o non possiamo fare è importante, ma non deve mai occupare il centro del discorso. La guarigione del paralitico di Capernaum (Mc. 2,1-12) può portarci a parlare della cura che bisogna avere per i disabili; ne può uscire un discorso interessante e apprezzato dagli uditori. Ma, se tutto il discorso è imperniato su questo aspetto della socialità, espone una morale ma ne trascura la radice. Il movimento del testo ci porta a seguire passo passo l’azione di Gesù, e il discorso sarà vero se ci farà sentire nella condizione del paralitico liberato dal Salvatore. La solidarietà (importante: è il primo punto del racconto) non deve suonare come un’ingiunzione, un obbligo, ma deve scaturire come una necessità interiore dall’azione liberante di cui ci parla l’evangelo.

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