Ecclesiaste 3,1-15

Continua il ciclo di meditazioni sul libro dell’Ecclesiaste del pastore valdese Winfrid Pfannkuche che siamo lieti di accogliere nella nostra rivista on-line – 3

Care sorelle e cari fratelli,
Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: ogni cosa ha il suo tempo. L’hai già pensato tante volte. Ogni cosa ha il suo tempo. L’hai già detto tante volte. Ogni cosa ha il suo tempo. L’hai già sentito tante volte.
Qui sentiamo Qohelet molto vicina. Qui il sentire di Qohelet è il nostro sentire. Qui, in questo poema del tempo, siamo tutti Qohelet. Siamo diventati contemporanei. Coetanei con Qohelet.
Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: ogni cosa ha il suo tempo. Cosa vuol dire? O meglio: cosa abbiamo voluto dire, quando l’abbiamo detto?
Di solito lo diciamo nel corso di un tempo sfavorevole: ogni cosa ha il suo tempo. Esprimiamo una certa accettazione di una situazione difficilmente accettabile: ogni cosa ha il suo tempo. Bisogna accettare le cose come stanno. Bisogna rassegnarsi. Ogni cosa ha il suo tempo. Lo diciamo con un pizzico di speranza, che dopo questo tempo sfavorevole, ci sarà di nuovo un tempo favorevole. Ogni cosa ha il suo tempo. Lo diciamo, lo sentiamo quasi come una piccola consolazione, un piccolo incoraggiamento. Per rendere la situazione sopportabile, meno angoscioso.
Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: proviamo un certo sollievo, quando sentiamo Qohelet parlare così, non solo perché lo sentiamo vicino alla nostra sensibilità, lo sentiamo complice, abbiamo la sensazione che ci capisce, ci comprende, ci legge i pensieri – e non è poco, perché di una tale persona sentiamo davvero il bisogno. Ma proviamo pure un po’ di sollievo perché rende quell’immensa vanità, quell’immenso hebel, di cui abbiamo sentito fin qui, e di cui ci sentiamo parte – complici – tutto sommato più sopportabile, meno angoscioso.
Forse anche perché il poema ci dà la sensazione di una bilancia, come quella della giustizia: come se i tempi positivi equivalessero a quelli negativi. Un bilancio, tutto sommato, accettabile. Un accordo fifty-fifty. Un compromesso con cui tutto sommato si può vivere. Ma questa è soltanto una sensazione: il testo non dice quanto dura il tempo della guerra e quanto dura il tempo della pace, né quanto persiste il tempo dell’odiare né quello dell’amare.
Diciamolo così: dipende dalla situazione in cui ci troviamo realmente. In un momento difficile il messaggio ogni-cosa-ha-il-suo-tempo ci dà un po’ di sollievo, perché evoca la possibilità di tempi favorevoli. Mentre in un momento tranquillo positivo, questo poema del tempo probabilmente né ci viene in mente, né lo citiamo perché evoca anche l’inevitabilità di tempi terribili.
Il male è limitato nel tempo: bene. Ma anche il bene è limitato nel tempo: male. Bene o male: siamo limitati. Prigionieri del tempo e dei tempi. Il susseguirsi dei tempi incessante, assolutamente indipendente da quel che facciamo o che possiamo fare, ci pone dei limiti impietosi. Non rimane altra possibilità che sottometterci ai tempi. Questo significa che ogni progetto umano è a rischio; il successo o l’insuccesso delle nostre azioni, in fondo, non dipendono da noi. Siamo esposti all’incertezza. Alla precarietà. Sembra quasi una congiura, una cospirazione dei tempi contro qualsiasi possibilità strutturale di trovare un modo di vivere che sia degno per tutti, una vita che valga la pena di essere vissuta.
Il poema lo esprime con 28 tempi. 4 volte 7. 7 è la completezza e 4 sono i punti cardinali, le quattro possibili direzioni, sensi della vita. Così abbraccia tutta la vita. 28 tempi, 28 azioni umane. Solo il nascere e morire rimangono piuttosto azioni passive. Eppure sono verbi infiniti, azioni senza soggetto, come se il soggetto fossero i tempi, azioni che appartengono alla misteriosa regìa dei tempi. Una terribile dittatura dei buoni e cattivi tempi. Non se ne esce. Gli orizzonti sono chiusi.
Eh, la vita va avanti… eh, si tira avanti… eh, bisogna rassegnarsi… eh, non si può fare niente… eh, speriamo… eh, ogni cosa ha il suo tempo… (tutti sospiri che senti anche fra i cosiddetti credenti)
E, dopo 28 volte che echeggia la parola tempo, azioni infinite e impersonali, sentiamo sette volte la parola Dio. Dietro la misteriosa regìa dei tempi c’è Dio. Dio, non il nome di Dio, come si è rivelato a Mosè. Ma Dio: infinito, impersonale, illimitato. Quel Dio di cui ogni essere umano ha una percezione. Dal momento che l’uomo viene a sapere di essere limitato: presuppone che ha un’idea di ciò che limitato non è. Dell’illimitato, dell’infinito, dell’eternità.
Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha perfino messo nei loro cuori il pensiero dell’eternità, sebbene l’uomo non possa comprendere dal principio alla fine l’opera che Dio ha fatta.
Il pensiero dell’eternità ce l’ha dentro l’uomo. Ma forse è già troppo filosofico (Cartesio). La parola ebraica per l’eternità è più prudente: tempo lungo, esteso. Cioè l’uomo può pensare al di là del momento. Al di là della sua situazione attuale. Al di là del presente. Pensa al passato, le persone anziane soprattutto. Pensa al futuro, soprattutto i giovani. E perciò ha problemi di essere presente, perciò abbiamo problemi di essere presenti gli uni per gli altri. Ecco il dramma dell’essere umano: avere un’idea di eternità nel cuore, di avere una percezione di Dio nel cuore. Il cuore in ebraico non è soltanto il luogo dei sentimenti, ma anche del pensiero e dell’intelligenza. E questo cuore, pieno di idee, pieno di nostalgie, pieno di desideri, questo piccolo tormentato, affaticato e oppresso cuoricino è così poco capace di cogliere l’attimo, di essere presente, di lodare Iddio, non per un’idea un calcolo un’opportunità, ma semplicemente per quel che ti dà al momento. Così poco capace di temere Dio. Ecco, il timore di Dio. L’uomo non teme Dio, perché l’ha sistemato nel passato o perché l’ha sistemato nel futuro. Temere Dio significa cogliere la sua presenza, cogliere il tempo che ti dà. Temere Dio significa accettarsi limitati, limitarsi ad accettare quel che c’è da fare ora. Essere presenti. Essere presenti l’uno per l’altro. Momenti indimenticabili. Momenti di condivisione. In mezzo a tanta fatica, in mezzo alla vanità, allo hebel, in mezzo alla schifezza, cogliere il dono della presenza, della gioia, del bene-essere.
Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo…all’inizio abbiamo detto: anche noi lo pensiamo e lo diciamo. Ora dobbiamo compiere ancora un passo: lo facciamo anche? Ogni-cosa-ha-il-suo-tempo è una saggezza pratica: rispettare i tempi altrui, capire cogliere il momento giusto.
Se per tutto c’è il suo tempo, dev’esserci anche per te il tuo tempo. Con i bambini piccoli siamo ancora abbastanza saggi: sappiamo ancora cogliere i loro tempi, le loro fasi di vita. Ma man mano che cresciamo aumentano le difficoltà: durante l’adolescenza dei figli, nel tempo delle mele, la saggezza dei genitori arriva spesso ai suoi limiti. E tutte le crisi che seguono avranno sempre più incomprensibili e invivibili. La saggezza sta proprio nel comprendere e cogliere il tempo e il ritmo differenti delle persone.
E’ molto importante nella cura dei malati. Quando una persona viene a sapere che sta per morire attraversa diverse fasi (E.Kuebler-Roos, La morte e il morire). La prima è spesso quella del rifiuto della realtà, lo stordimento: “No, io no, non può essere vero!” E’ una difesa naturale, una specie di autoanestesia della mente, che permette al colpito di mobilitare le sue energie. Una sensazione di irrealtà, di incubo che può durare pochi istanti o parecchi giorni. In questa fase il sofferente è immensamente grato per ogni gesto di affetto, sensibile alle parole bibliche e agli inni familiari.
Ma poi c’è, di solito, la seconda fase, quella della collera. Rabbia, invidia, risentimento: “Perché proprio a me?” E’ un momento difficile per quelli che circondano la persona malata, perché spesso sono fatto oggetto di questi sentimenti di ostilità. La persona può chiudersi in mutismo, rifiutare le cure mediche. Sperimenta la solitudine e cerca di uscirne proiettando i suoi sentimenti sugli altri. E’ in questa fase che protesta anche contro io che gli ha mandato quest malattia.
Poi c’è la fase del compromesso, del venire ai patti. Quel che non si poteva ottenere con la protesta violenta si potrà forse ottenere con la dolcezza? E’ il momento delle promesse, dei voti: proporsi di vivere almeno fino a che il figlio si sposi, o ce si possa ancora una volta uscire e tornare a casa. Cure mediche e parole di conforto sono ben accette.
Ma, con il protrarsi della malattia, subentrano mille preoccupazioni nuove, relative al lavoro che si è lasciato, alla famiglia, preoccupazioni economiche. Tutto questo quando le energie sono diminuite. Allora viene il momento della depressione, del lasciarsi andare. Lottare è inutile.
Alla fine, all’esaurimento delle fasi precedenti, si arriva spesso a l’ultima fase, quella della accettazione. La persona malata può essere ora indebolita e meno consapevole di quello che succede intorno a lei: aumenta il bisogno di assopirsi e di dormire. Non è però una fase felice. E’ piuttosto un vuoto di sentimenti. In questa fase si può essere vicini più con una presenza tranquilla che con le parole.
Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo. Non è una rassegnazione, ma una saggezza pratica che appunto va praticata. Sempre dobbiamo imparare. Apprendere come i bambini. Cogliere, comprendere il momento.
Ma ora noi non siamo chiamati a testimoniare la nostra saggezza, bensì siamo chiamati a testimoniare la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. A tutti. Dai bambini appena nati ai morenti. Siamo chiamati a testimoniare la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. E lo dobbiamo nella prigione dei nostri tempi. Tutti gli orizzonti sono chiusi. Siamo ovviamente anche noi in questa prigione dei nostri tempi. Ma non siamo prigionieri.
Dobbiamo testimoniare la morte e la risurrezione di Gesù Cristo, l’unica cosa che apre un nuovo orizzonte sotto il sole. Lo dobbiamo fare con saggezza. Come chi non smette mai di ascoltare e di imparare, come discepoli, appunto. Ma la nostra saggezza non la possiamo usare come scusa. Come Caino si scusa: devo forse essere io il guardiano di mio fratello?
Così anche noi potremmo concludere: dobbiamo testimoniare Cristo, sì, ma per tutto c’è il suo tempo… e decidiamo noi quando ci sarà questo tempo… e non lo faremmo mai o lo faremmo come vogliamo noi.
Ma ora non siamo noi a decidere quando ci sarà questo tempo. Noi preghiamo con il salmista: Il mio tempo è nelle tue mani (Salmo 31, 16). E, proprio quando vogliamo scusarci e abilmente giustificarci, ascoltiamo l’esortazione, l’incoraggiamento dell’apostolo a non ricevere la grazia invano… eccolo ora il tempo favorevole; eccolo ora il giorno della salvezza! (II Corinzi 6,1-2).
E con Timoteo (II Timoteo 4,1-5) ascoltiamo: Ti scongiuro, davanti a Dio e a Cristo… predica la parola, insisti in ogni occasione favorevole e sfavorevole, convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e pazienza. Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in ran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, svolgi il compito di evangelista, adempi fedelmente il tuo servizio.

2 OTTOBRE 2011
16° DOPO PENTECOSTE

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